La rivoluzione industriale
La rivoluzione industriale per me è iniziata a Roma nel 1977 quando, durante le vacanze estive, iniziai a lavorare nel laboratorio di mio padre e dei miei zii. Il posto era al confine tra i quartieri Tufello e Talenti; da un passo carrabile si accedeva a un grande seminterrato con finestroni alti. Le lavoranti, tutte giovani donne, venivano da un borgo della Sabina chiamato Castelchiodato e quindi arrivavano per lo più con la corriera o accompagnate da mariti e fidanzati. Davanti all’ingresso c’era sempre un viavai di furgoncini e motorini.
Nel laboratorio si producevano borsoni in materiale plastico per palestre e sport e, soprattutto, in quel posto nascevano idee interessanti grazie all’inventiva di mio padre. Mi ricordo ad esempio quella borsa con il doppiofondo rigido a parallelepipedo che ogni ragazzo, dalla fine dei Settanta in poi, ha usato per andare a giocare a calcio e che si usa ancora oggi. Poi c’era quell’altro brevetto: una borsa da tennis piuttosto piccola che si apriva e diventava gigantesca. A lui piaceva e piace ancora fare cose che si trasformino e diventino qualcos’altro o che abbiano un doppio uso, sfruttando la sua abilità sartoriale che è una competenza di famiglia – mio nonno e i suoi dieci figli erano tutti abili sarti.
Mio padre, che è tutt’ora anche un bravo venditore – dote che purtroppo non ho ereditato – , riusciva a piazzare i suoi modelli presso case sportive famose come Fila, Ellesse e tante altre. Era una piccola impresa familiare ma si facevano anche grandi forniture: per centri sportivi, palestre, piscine. Insomma, si faticava alla grande, erano sempre almeno dodici ore di lavoro al giorno per papà e zii, ma era bello perché era sempre una sfida a produrre qualcosa di nuovo, qualcosa che prima non c’era. A volte si scopiazzava anche un po’; da lì un soprannome che qualcuno aveva affibbiato a papà, “il cinese”, anche se il suo non era tanto un vero plagio quanto un prendere ispirazione da qualcosa che vedeva in giro e che funzionava bene.
C’erano tanti lavori che si potevano fare anche in casa e credo di aver imparato molto da questo, oltre che dal frequentare la sartoria da donna di mia zia Venturina. Tra le altre cose, nel laboratorio si “fustellavano” (ovvero, si tranciavano con una grande pressa usando sagome taglienti) i numeri termoadesivi che poi venivano attaccati sulle maglie dei giocatori di calcio. A casa, sul tavolo del salotto, con mia madre mettevano in bustine di plastica trasparenti le serie dei numeri di un’intera squadra di calcio, dall’1 al 12, e poi le chiudevamo con una spillatrice. La bustine si vendevano poi come accessorio alle squadre e alle scuole calcio di Roma. Ne confezionavamo a migliaia.
Si potevano fare tante altre cose come questa, per contribuire all’economia dell’impresa: erano lavoretti manuali che nel laboratorio nessuno avrebbe avuto il tempo di fare, così ci pensavamo noi. Ricordo ad esempio di aver passato diverse stagioni a confezionare quell’incredibile e infernale gioco delle due palline legate con lo spago che toccandosi facevano Clic-Clac e che diventarono un passatempo virale per qualche anno. Papà portava a casa rotoli di cordoncino, anellini di legno o di plastica e sacchi pieni di palline; io e ma madre tagliavamo a misura un pezzo di cordone, facevamo un cappio per assicurarlo all’anellino e poi, alle due estremità, attaccavamo le palline. Anche di Clic-Clac ne confezionammo davvero tantissime, credo decine di migliaia.
Quello è stato il nostro piccolo “boom”. Fu così che potemmo pagare diverse rate della nostra casa, un po’ alla volta e prendendo accordi senza cambiali. Poi, mia madre faceva per suo conto anche vendita di borse e articoli di pelletteria da donna, facendo riunioni in case di amiche e conoscenti, ma quella è un’altra storia. Io ci provai a scuola e naturalmente fu un fallimento.
Quegli anni me li ricordo in bianco e nero, come nella foto, ma in realtà furono anni coloratissimi: anche i polimeri che si usavano allora erano sgargianti. In laboratorio si lavoravano grandi quantità di materiali plastici di colore nero, azzurro e blu, ma anche molti colori. E poi c’era la serigrafia.
Ecco, sul mondo della serigrafia sarebbe bello scrivere qualcosa, ha sempre esercitato un grande fascino su di me e mi considero fortunata per aver conosciuto quelle tecniche già allora. Oggi è una cosa di super-élite, tra il vintage e l’artigianato di classe, ma allora era il solo modo per stampare e personalizzare qualunque superficie.
Insomma, la rivoluzione industriale con una piccolissima impresa allora la fecero mio padre e gli zii Buffa e per me iniziò con il lavoro durante le vacanze dalla scuola media. Arrivavo presto e mi mettevano a fare l’unica cosa non pericolosa in mezzo a tutti quei macchinari insidiosi e pesanti: installavo i cassoni di plastica nella parte inferiore delle borse sportive, premendo col pollice per incastrare i piedini su cui poggiava poi l’intero borsone, che veniva infine foderato con un materiale plastico chiamato “antistrappo”, molto resistente, e poi rifinito con rivetti (quei profili in colore a contrasto con cui venivano bordati i pezzi), per poi essere completato con le cerniere lampo. Che invenzione la cerniera lampo… non si potrebbe immaginare un mondo senza. Noi ne usavamo chilometri ogni giorno; per questo avevamo preso contatto con la mastodontica industria giapponese di produzione di cerniere lampo, la Yoshida, da cui si acquistavano rotoli di “catene continue”: cerniere lampo di lunghezza indefinita che si tagliavano in base alla misura desiderata e su cui si installavano i cursori.
E siccome in quegli anni la plastica regnava sovrana ed era ancora il materiale di eccellenza per realizzare qualunque cosa, dopo un po’ mio padre scoprì che alcune componenti e altri accessori era possibile farli stampare nella forma e nella misura desiderate anziché tagliarli con la fustella o modellarli a mano. Esattamente quello che succede ora con le stampanti in 3D, solo che lui ci aveva pensato prima. Il procedimento, ovviamente, era molto meno raffinato di quello attuale ma più efficace e veloce: permetteva di fare altissime tirature di ogni componente – fibbie, anelli, passanti, manici, piedini.
Fu in quegli stessi anni che a mio padre si accese in testa un’altra lampadina: era possibile lavorare con le banche, creando dei sigilli in plastica monouso per chiudere e assicurare i sacchi portavalori o altri contenitori preziosi. Lui è fatto così, ci sta sveglio la notte e al mattino alle cinque l’idea è pronta per essere realizzata. Pensò di disegnare una sorta di gancio in plastica che fosse possibile rompere e aprire una sola volta, usa e getta: fu un successo, ricevette ordini per migliaia e migliaia di pezzi e tutte le sedi centrali delle banche ne ordinavano, perché era un modo sicuro per capire se i pacchi e le sacche portavalori arrivavano integre.
Di queste idee mio padre (classe 1933, licenza elementare) ne tira fuori in continuazione ancora oggi.
La piccola rivoluzione industriale che fece è qualcosa di reale e tangibile, non nato dalla mia fantasia o da qualche edulcorato ricordo.
E non fu neanche tanto piccola: alcune di quelle cose funzionano benissimo ancora oggi.
Provare per credere.